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martedì 26 maggio 2020

La rivolta del sette e mezzo a Palermo


Lo sbarco dei Mille in Sicilia portò con sé grandi speranze di rinnovamento economico e sociale. L'avvento della dittatura garibaldina, con i suoi ideali democratici e le sue promesse sociali, produsse un'ondata di entusiasmo che spinse molti siciliani ad aderire alla causa piemontese che, nelle speranze dei più, avrebbe significato raggiungere la liberazione dall'oppressione borbonica e l'agognata giustizia sociale.

Dopo l'incontro di Teano, Garibaldi lasciò le sue conquiste nelle mani del Re e di Cavour, i quali hanno dato vita a quel fenomeno che ormai riconosciuto come "piemontesizzazione" dell'Italia. Gli apparati amministrativi, giudiziari, fiscali, legislativi e militari furono estesi a tutto il paese, compresa la Sicilia. Il nuovo Stato, piuttosto che come liberatore, manifestò subito ciò che era davvero, cioè l'ennesimo straniero che s'impossessa dell'isola, indifferente alle aspettative della popolazione civile.

Il nuovo Stato dovette subito tener fronte ai nuovi nemici separatisti, che pervadevano tutto il Sud Italia alimentati dalla rabbia provocata dalla delusione dell'ipocrisia garibaldina e dall'oppressione del governo di Torino. Dietro le spinte separatiste che interessavano tutto il Sud, c'erano gli interessi dei Borbone e della Chiesa, spodestati dai loro legittimi poteri.

Il brigantaggio in Lucania e Campania e le rivolte siciliane rappresentavano la ribellione verso quel nuovo padrone che spremeva i cittadini più di quanto aveva fatto il precedente governo: opprimente fiscalità, leva obbligatoria, smantellamento dell'economia di tutto il Sud e controllo poliziesco della popolazione civile.

Tra il 16 e il 22 settembre 1866 scoppiò a Palermo la rivolta del sette e mezzo. La sollevazione popolare, che durò sette giorni e mezzo, era una rivolta antigovernativa, organizzata da ex garibaldini delusi, ex funzionari borbonici e religiosi e reduci dell'Esercito meridionale.

La premessa di questa rivolta sta nelle precedenti ribellioni contro il servizio militare obbligatorio introdotto dal Regno d'Italia nel 1861 e 1862. Le leggi borboniche prevedevano deroghe nei confronti dei residenti della Sicilia, i quali erano esentati dal servizio di leva. Palermo, Biancavilla, Adernò, Paternò, Mezzojuso, Alcamo, Sciacca, Belmonte Mezzagno si ribellarono. Nel gennaio 1862 la ribellione a Castellammare del Golfo aveva assunto caratteri popolari e di massa tali da condurre la Regia Marina Italiana a colpire, con i propri cannoni, proprio la popolazione civile.

La repressione italo-piemontese ristabilì l'ordine, ma acuì il malessere e la consapevolezza del tradimento nei confronti delle aspettative di giustizia e libertà promesse da Garibaldi.

La precarietà economica dovuta alla pesante tassazione cresceva, si diffondeva il colera, l'oppressione dei nuovi funzionari statali e le misure poliziesche provocavano ondate di malessere che, ad un certo punto, fu difficile contenere. 

Nella notte tra il 15 ed il 16 di settembre del 1866, migliaia di contadini (circa 3000-4000) occupano Palermo e spingono la popolazione cittadina a unirsi a loro per la ribellione. La repressione non si fece attendere: l'esercito comandato da Raffaele Cadorna, la Regia Marina Italiana, con l'aiuto della Marina Inglese, bombardarono Palermo. Dopo sette giorni e mezzo la rivolta fu sedata, ma il 7 settembre 1866 fu dichiarato lo stato di assedio. Furono arrestati 2.427 civili, 297 furono processati e 127 condannati.

Perché gli inglesi? Il revisionismo storico degli ultimi anni ha fatto emergere quanto fosse importante, per gli inglesi, avere un governo liberale al cuore del Mediterraneo e in Sicilia, poiché vini, zolfo e porti mercantili alla volta del canale di Suez, non potevano rimanere nelle mani dell'emergente economica borbonica, che mal tollerava la subordinazione all'Inghilterra e tentava di svincolarsi tramite accordi con le potenze nemiche della “Perfida Albione”.

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